Definizione della filosofia di assistenza e cura.
Finalità (mission), principi ispiratori e valori etici.
La strada intrapresa con il “lavoro per progetti”, dunque, consentiva di mettere al centro del sistema organizzativo la figura professionale dell’Addetto all’Assistenza, che trasformava le proprie competenze, strutturate tradizionalmente sul “sostegno al bisogno”, già conclamato nella persona assistita, in competenze “progettuali” sulla persona accolta nella struttura residenziale.
L’ Addetto all’Assistenza veniva definito più modernamente con l’inglesismo “Care Giver”, termine che nel nostro idioma può essere tradotto come “colui che dà cura” e le sue competenze partivano dalla concezione che l’individuo, inteso come essere unico ed irripetibile, non è unicamente un soggetto “portatore di bisogni” già in essere, ma appare come una persona con bisogni impliciti o potenziali, non ancora,cioè, in atto, ma soprattutto l’individuo è una realtà esistenziale complessa, dotata di personalità, carattere, affettività, aspirazioni, desideri, non riducibili all’unicità del bisogno.
Questa considerazione complica molto il quadro di riferimento, perché il “prendersi cura” di una persona non può limitarsi a rispondere alle sue esigenze materiali, ma deve considerarsi tutta la sfera esistenziale, specie per ciò che concerne le relazioni che l’individuo struttura con i suoi simili.
Si può comprendere come questa visione si complichi ulteriormente quando l’individuo considerato è una persona anziana, sovente in stato di dipendenza o di non autosufficienza, inserita in un contesto gruppale e comunitario come quello di una struttura residenziale.
Tenendo conto di questi principi etici e culturali, la Casa di Riposo non poteva limitare il proprio intervento all’assistenza (risposta ai bisogni rilevati della persona), ma arricchire la propria filosofia di cura, giungendo ad una nuova e più complessa visione della propria finalità.
In questi anni, perciò, la Direzione dell’Ente e tutto lo staff iniziano a definire la nuova mission , cioè definire con puntualità lo scopo del proprio agire nel mondo dei servizi alla persona.
Si è partiti, inizialmente, dalla definizione di benessere data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in quanto parametro certo e condiviso dalla comunità scientifica internazionale, e, quindi, meno opinabile di una definizione “interna” o “soggettiva”.
Il termine “benessere” è stato preso dalla lingua francese (bien- ^etre) che sta ad indicare una condizione di equilibrio tra tutte le componenti della persona, la dimensione fisica, psichica, relazionale, affettiva, sociale, economica, eccetera.
La Casa di Riposo ha rintracciato in questo termine, composito nella sua accezione, come principio guida: una struttura residenziale che ospita persone anziane che non vivono più nel proprio contesto familiare di provenienza, ma vivono ora in un contesto comunitario e che devono essere colte nella loro complessità, deve prefiggersi di realizzare i massimi livelli di benessere possibili (ovviamente, il concetto in analisi deve essere declinato, in base alle oggettive condizioni in cui la persona viene a trovarsi).
Il “benessere” dipende allora da molti fattori: sicuramente la cura e l’assistenza della persona che palesa dei bisogni di natura psico-fisica, ma anziché intervenire esclusivamente su ciò che è già conclamato, si deve agire anche sul versante della prevenzione all’insorgere di ulteriori bisogni o, almeno di ridurre gli inevitabili danni derivanti da un processo patologico di invecchiamento .
La mission veniva così definita (e la definizione delle finalità della struttura allora data è stata poi trasposta nell’odierna “carta dei servizi”): la Casa di Riposo intende offrire agli utenti/clienti anziani, sia in condizione di auto che di non autosufficienza, in stretta collaborazione con i servizi territoriali e la famiglia, un servizio di natura residenziale e assistenziale qualificata e continuativa in grado di garantire una qualità di vita più elevata possibile, rispettando la loro individualità, dignità e riservatezza, considerando la peculiarità dei bisogni fisici, psichici, sociali e relazionali, promovendo l’autonomia funzionale, l’inserimento sociale e comunitario, e riducendo, per quanto possibile gli stati di disagio.
In breve, tutte le risorse umane impegnate nella struttura residenziale dovevano, con il proprio operato, riempire di contenuto queste dichiarazioni di principio, in quanto era chiaro a tutti come fosse odioso, oltre che inutile, illudere una utenza già problematica, su grandi finalità ideali che poi non potevano tradursi effettivamente in pratica. Non si poteva più parlare di “qualità di vita” senza declinare questo concetto, definendo con puntualità il suo contenuto, in modo che le persone accolte e i loro familiari potessero tradurre il termine “qualità” in dimensioni concrete, in diritti esigibili. L’Ente poteva, al contempo, dare osservanza al precetto costituzionale del “diritto alla salute”
In merito all’ ”autonomia funzionale” (grado di capacità di svolgere le funzioni vitali di una persona), la struttura deve garantire, con l’attuazione di progetti individuali: il recupero delle capacità psico-fisico-relazionali-sociali, ecc. Recupero significa che la struttura, con i propri interventi, deve ripristinare tutte quelle “funzioni” (abilità) che una malattia o, il semplice scorrere del tempo di vita, avevano compromesso o limitato. E’ questo il principio della “riabilitazione”, che molte volte passa anche attraverso una rieducazione di secondo grado finalizzata a fornire alla persona anziana nuove strategie di adattamento alle nuove situazioni (es alla vita comunitaria); il mantenimento dell’autonomia funzionale residua. Qualora non sia possibile ripristinare la situazione ex ante , originaria, la struttura, con i propri interventi mirati, deve far in modo che la situazione almeno non degeneri ulteriormente. Su questo punto, come sul precedente, occorre fare molta chiarezza: non si tratta di impedire che la vita e le sue difficoltà facciano il proprio corso – la struttura non è ancora dotata di poteri “miracolosi”, come diceva un simpatico aforisma – ma si deve seriamente evitare che i propri comportamenti ed interventi sulle persone, non siano finalizzati a valorizzare (a mezzo di interventi “strategici” quotidiani) l’autonomia rimasta alla persona. Questo ha anche dei risvolti economici, comprensibili grazie ad un chiaro esempio: lavare un ospite completamente con l’intervento di un Addetto all’Assistenza comporta una durata ormai standardizzata e sostenibile (es 15 minuti per un certo importo di costo/risorsa) . La presa in carico totale della persona, pur comoda per un anziano che, spesso, in questo ambito, deve riaffrontare certe pigrizie proprie dell’età infantile, provoca però la perdita della, pur limitata, capacità di lavarsi da solo. Elaborare, allora, una strategia che comporti che l’Addetto intervenga solo per integrare le capacità mancanti e per stimolare la persona ad espletare le proprie funzioni, sorvegliando le operazioni, ma non sostituendosi alla persona, comporta anche una ridefinizione dei tempi (ergo dei costi) dell’assistenza. Pertanto, nel breve periodo, fare un bagno senza coinvolgere l’ospite può risultare conveniente dal punto di vista economico, ma sicuramente questo atteggiamento “efficiente” non appare invece altrettanto “efficace”, cioè diviene causa di perdita di abilità, le quali, nel lungo periodo, comporteranno, oltre che difficoltà e l’insorgere di stati di dipendenza, anche maggiori costi di accudimento.
Altrettanto, programmando interventi sostenibili anche dal punto di vista economico, si è riusciti a far diventare la struttura un contesto riabilitativo e protesico, non limitando la “riabilitazione” alle attività di palestra, appannaggio esclusivo di una figura professionale “tecnica” (fisiokinesiterapista) , ma estendendola a tutte le funzioni vitali quotidiane, definite, pianificate e controllate dal “tecnico”, ma realizzate da tutti gli Addetti all’Assistenza in tutte le loro azioni, permeate da tale logica; dove i due obiettivi di cui sopra (recupero o mantenimento abilità funzionali) non dovessero dimostrarsi conseguibili (per reali condizioni della persona o per l’avanzare di forme patologiche particolarmente invalidanti o degenerative) la struttura deve realizzare l’obiettivo del rallentamento della perdita delle funzioni e delle capacità individuali. Questa strategia è definita anche sinteticamente come “riduzione del danno” ed appare concetto fondamentale per tutte quelle patologie per le quali, a tutt’oggi, non esiste capacità di guarigione e cura (es il morbo di Alzheimer). Tutti gli interventi, permeati dall’obiettivo di “produrre salute e benessere”, non si potevano però limitare al piano psico-fisico, ma dovevano concentrarsi su tutta la sfera esistenziale, specie per ciò che concerne il mondo delle relazioni, con gli altri ospiti, con il personale, con le famiglie di origine e così via. E questo non unicamente per una necessità sul piano logico di essere coerenti con i principi generali sopra esposti, quanto, piuttosto, per la consapevolezza che, spesso, alla base di molte patologie o, più in generale, alla difficoltà di convivere con un dato problema, sono in stretta connessione con le relazioni sociali ed affettive che la persona ha. In tal modo, veniva a realizzarsi in pratica anche il principio dell’integrazione socio-sanitaria, la quale, pur essendo contemplata da norme nazionali e regionali da quasi un ventennio, stenta a tradursi nei fatti, mantenendo domini separati e, spesso, tra loro antagonisti.
Grazie ai concetti sopra esposti, allora, si è ritenuto di definire il concetto di “qualità esistenziale” e quello di “comunità di cura”, che partivano da una organizzazione del lavoro “addetto-centrica” (dove, cioè, il focus delle attività è portato avanti nella quotidianità dall’Addetto all’Assistenza/Care giver) per realizzare, al di là di dichiarazioni retoriche o di mero principio, la centralità dell’anziano all’interno del servizio, colto in tutta la sua complessità, funzionale e relazionale. La comunità, che tutta l’organizzazione della struttura ha voluto e concorso a creare, doveva allora avere una natura “aperta”, dove si potesse vivere liberamente, con limitazioni giustificate unicamente da un particolare stato di salute (deficit cognitivi e comportamentali), dove i rapporti con il territorio e con la cittadinanza dovessero essere continui e strutturati. Questi elementi ci consentivano di superare il parallelo Casa di Riposo = luogo di segregazione e anticamera della morte, restituendo, anche alle persone meno fortunate, diritti e dignità, fino all’ultimo giorno di vita.
Contestualmente, si sono definiti i principi ispiratori a cui la comunità e le attività in esse realizzate dovevano uniformarsi:
Tutela della dignità, libertà e riservatezza personali. I servizi erogati dalla struttura si informano al principio del rispetto della persona e delle proprie caratteristiche individuali, garantendo libertà di movimento, di opinione, di espressione della personalità, in tutte le forme, anche nel contesto comunitario. Contestualmente, i servizi tengono conto della necessità di tutelare la riservatezza personale, sia quella delle persone che lavorano all’interno del servizio che quella dei destinatari degli interventi socio-assistenziali e sanitari. In particolare, attraverso una scrupolosa osservanza del segreto professionale e di quello d’ufficio, il trattamento dei dati personali (compresi quelli rilevanti lo stato di salute) avviene in osservanza delle forme previste dalla legge (sulla “privacy”, L. n° 675/ ‘ 96 e ss. modifiche ed integrazioni).
Tutela della salute e del benessere generale della persona e tutela delle sue relazioni all’interno della comunità, nella struttura e nelle relazioni con la famiglia di origine o con la rete amicale e di vicinato di provenienza. Lo scopo principale del servizio in Casa di Riposo è quello di garantire il benessere generale della persona quale situazione di equilibrio tra le varie componenti individuali.
Eguaglianza e non discriminazione in base a condizioni psico-fisiche, a opinioni politiche, a convinzioni religiose, a sesso e etnia:questo principio va inteso comr divieto di qualsiasi discriminazione e differenziazione di trattamento non giustificate e come rispetto delle specificità individuali. Detto principio viene realizzato anche grazie al metodo della “personalizzazione” degli interventi: per ogni persona viene definito (ed aggiornato nel tempo in base all’evoluzione della condizione soggettiva) un programma individualizzato (P.A.I. Piano Individualizzato di Intervento).
Principio della solidarietà sociale. Ci si propone di realizzare l’ “inderogabile dovere” della solidarietà sociale, definito dall’art. 2 della Costituzione della Repubblica Italiana, che consiste nella presa in carico, da parte della società (e della Repubblica, con le sue articolazioni, quindi anche dell’Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza “A. Galvan”) delle contraddizioni che in essa emergono, in particolare per ciò che concerne il sostegno a quelle fasce di popolazione che presentano stati di svantaggio, disagio, bisogno, con la volontà di rimuoverli o, almeno, lenirli.
La “solidarietà” non consiste, pertanto, in un fatto discrezionale e caritatevole, non è un atteggiamento meramente altruistico o pietistico, ma consiste in una vera e propria obbligazione, dovere, per l’appunto, inderogabile, che ha per oggetto il sostegno a chi è in stato di bisogno e difficoltà, garantendo così di diritti individuali e della collettività generale.
Coinvolgimento. I soggetti erogatori devono garantire la partecipazione dell’utenza alla prestazione. L’utente (concepito nella sua accezione di cliente, cioè di persona che a fronte di un corrispettivo, chiede un dato servizio e la soddisfazione della richiesta garantisce un suo diritto soggettivo), ha diritto di accesso a tutte le informazioni in possesso del soggetto erogatore il servizio. Noi abbiamo fatto nostro questo principio coinvolgendo e responsabilizzando l’ospite nella realizzazione dei Piani Individualizzati, coinvolgendo anche i familiari (cliente “allargato”) sugli obiettivi di salute da perseguire, cercando in tal modo di stabilire tra la struttura e gli utenti un rapporto di fiducia e crescita reciproca. Ovviamente, questa impostazione ha comportato la creazione di una cultura nuova di fare servizio socio-sanitario: non sussistendo nel nostro ordinamento alcun obbligo di cura (unica eccezione è costituita dal Trattamento Sanitario Obbligatorio – T.S.O- a fronte di situazione di pericolosità sociale), si è affermata la cultura “contrattuale”, la quale consiste nella definizione, di volta in volta, di contratti di cura chiari e verificati, con esplicitazione degli obiettivi e con altrettanto palese evidenza dei risultati conseguiti o mancati, compresa l’individuazione puntuale delle responsabilità dei singoli Operatori, evitando quell’ odioso fenomeno, spesso riscontrabile nei servizi pubblici o di pubblica utilità, noto come “scaricabarile”, per il quale la colpa di eventuali inefficienze o di danni appare sfumata e di difficile lettura. Le attribuzioni individuali di responsabilità, dichiarate in atti espliciti (Carta dei Servizi, Regolamenti Interni, Procedure,ecc. ), hanno reso riconoscibili per l’utenza figure responsabili e creato un rapporto con gli Operatori della struttura.
Continuità. L’erogazione del servizio deve essere continua, regolare e senza interruzioni. Abbiamo recepito tale principio garantendo un servizio di assistenza continuativo, articolato sulle 24 ore e per tutti i giorni dell’anno, senza diminuzione di prestazione nei giorni festivi o nei periodi di ferie del personale (per questo si assicurano assunzioni di personale “straordinario”, assunto a tempo determinato per consentire il mantenimento degli standard previsti dalla legge per tutto l’anno di riferimento). Tutti i Piani Individualizzati di Intervento vengono verificati in precisi momenti (nelle Unità Operative Interne e una volta l’anno a dicembre) e ciò consente un aggiornamento degli interventi in base alle modificazioni dello stato di salute dei sigg. Ospiti.
Diritto di scelta. Il Cliente ha diritto di scelta tra i diversi soggetti erogatori e, ove ne sussistano le capacità, il cliente deve essere chiamato a pronunciarsi in prima persona sugli interventi e sul gradimento degli stessi (sono state strutturate delle schede di rilevazione del gradimento dell’ospite). La Casa di Riposo, a tale scopo, deve prevedere nelle sue azioni di coinvolgere direttamente l’utente (e i suoi familiari), di informarlo sulle motivazioni sottostanti alle azioni e agli interventi e di sostenerlo nei processi di formazione della volontà, garantendo la scelta libera e favorendo il diritto all’autodeterminazione della persona. Per le persone che palesano dei deficiti cognitivi, l’esercizio del diritto di scelta verrà svolto con l’assistenza di persone di sostegno (tutore, curatore, amministratore di sostegno, familiari, persone di riferimento, ecc.). Libertà di scelta significa anche possibilità del cliente di pronunciarsi in merito alle scelte terapeutiche e di assistenza, nei limiti delle norme in vigore nel nostro ordinamento giuridico.
Partecipazione. La Casa di Riposo garantisce la partecipazione del cliente alla prestazione. Al cliente, infatti, è garantito il diritto di accesso alle informazioni che lo riguardano, in possesso del soggetto erogatore del servizio, nel rispetto delle leggi vigenti e il cliente viene coinvolto nel pronunciamento sulla qualità del servizio, esercitando liberamente il proprio diritto di critica e di proposta di modifiche e miglioramenti.
Efficacia ed efficienza. La Casa di Riposo informa il proprio agire alla concreta capacità di conseguire risultati di benessere e di soddisfazione dei bisogni anche impliciti ed inespressi, dei sigg. clienti. Inoltre la struttura verifica costantemente che il perseguimento delle proprie finalità avvenga in base al migliore e più utilizzo delle risorse disponibili, evitando sprechi e contenendo al massimo i costi di produzione e di erogazione. La Casa di Riposo, nei limiti consentiti dalla determinazione dei costi di produzione ed erogazione definiti da soggetti terzi (es, contrattazione nazionale di lavoro), persegue finalità “sociali”, proponendosi di erogare un servizio anche per soggetti meno abbienti e amministrando oculatamente le sostanze economiche dell’Ente, le quali hanno natura pubblica e che, impongono perciò, oltre ad una gestione trasparente, il dovere di “rendere il conto” a tutte le persone e i soggetti interessati sulla gestione medesima.